Mentre in Parlamento si discute animatamente di scuola,
Luigi De Paoli ci segnala un articolo ben documentato.
Buona lettura!
L’intelligenza fatta in casa
di Silvia Bencivelli
«La scuola può molto, ma lo sviluppo decisivo del cervello avviene ancor prima: tra le mura domestiche. Grazie al gioco e alle relazioni affettive. E, come dimostra un’ultima ricerca, reddito e istruzione dei genitori hanno un ruolo fondamentale.»
Non date la colpa alla scuola: l’intelligenza di una persona non si costruisce lì, ma a casa, con i genitori e i cuginetti. E si costruisce molto presto, ben prima del suono della campanella. Lo dimostrano le ricerche che hanno seguito lo sviluppo cognitivo dei bambini nei loro primi anni di vita. E quelle che, poco più tardi, hanno studiato la maturazione del cervello e perché ciò che i maestri di prima elementare fino a oggi sospettavano soltanto abbia, invece, fondamenta biologiche chiare.
Oggi, in maniera quasi spietata, sembrano confermarlo ricerche come quella americana pubblicata a marzo di quest’anno su Nature Neuroscience con un titolo fin troppo chiaro: «Reddito familiare, livello di istruzione dei genitori e struttura del cervello di bambini e adolescenti». Quei 1.099 tra bambini e ragazzi infilati nel tubo della risonanza magnetica avrebbero dimostrato l’esistenza di una correlazione diretta tra superficie della corteccia cerebrale e indicatori quali gli anni di scolarizzazione dei genitori e perfino il loro stipendio.
Messi insieme, questi studi dicono comunque una cosa chiara, e non così ovvia: a destinare i bambini a un futuro intelligente è quel che succede quando siamo piccolissimi, passeggiando al parco con i nonni oppure stando sul divano a sfogliare un “libro di figure” insieme ai genitori. Lo si è cominciato a discutere con numeri e statistiche più o meno all’inizio degli anni Ottanta quando gli psicologi dell’università del Kansas, Betty Hart e Todd Risley, rivolsero la loro attenzione a Head Start, (ricco) programma per l’educazione dei figli delle classi più povere inaugurato in Usa nel 1960 e basato sull’idea che gli svantaggi di un ambiente socialmente sfavorevole potessero essere compensati da un’attenzione pedagogica mirata fin dalla prima elementare. In realtà, l’analisi mostrò che i risultati scolastici dei bambini non miglioravano granché, tantomeno nell’area scientifico-matematica.
Erano bambini di cinque anni o anche più. Troppo vecchi, sospettarono Hart e Risley. Qualcosa di importante doveva essere già successo in loro per renderli così tanto più impermeabili all’educazione scolastica rispetto ai figli dei ricchi. Per capire di che cosa si trattasse, misero in piedi un esperimento della durata di tre anni poi raccontato nel libro Meaningful Differences in the Everyday Experience of Young American Children .
Durante quei tre anni Hart e Risley hanno letteralmente contato, livello economico e culturale. La differenza è risultata essere impressionante: nell’ordine dei milioni. Anzi, decine di milioni. Per la precisione, 32 milioni di parole di differenza tra quelle ascoltate in casa dal figlio dei professionisti e quelle ascoltate dal figlio della famiglia povera.
Per di più si trattava anche di una differenza qualitativa: le parole ascoltate dal primo erano più varie e inserite in discorsi più ricchi di emotività. Ed erano sempre più incoraggianti di quelle rivolte al coetaneo meno fortunato, che dai genitori riceveva quasi soltanto istruzioni tecniche (“rimetti a posto i giochi”, “vieni qua”, “non piangere”) e soprattutto rimproveri.
Gli psicologi di mezzo mondo cominciarono a chiedersi se questa differenza non fosse, almeno in parte, strutturale e inevitabile. Cioè se i risultati di Hart e Risley non dimostrassero che le persone che riescono a raggiungere le fasce più alte di cultura e reddito non siano dotate di geni migliori, così come i loro figli. E se dunque si potesse davvero intervenire. Ci si chiese come costruire una scuola migliore, e se ne valesse la pena. Se disegnare classi omogenee servisse a qualcosa ma anche se differenziarle non peggiorasse la situazione.
Erano gli anni Novanta. E il dibattito non si è mai chiuso davvero. A un certo punto però sono arrivate le ricerche sulla maturazione del cervello, che hanno messo un altro punto fermo. Ovvero, hanno spiegato che a rendere i bambini intelligenti non è solo l’ambiente. E non sono solo i geni. Ma sono gli uni e gli altri insieme. Solo che lo sono in una finestra temporale molto stretta, che si chiude prima di quando non si aprano le porte della scuola.
Sono ricerche ormai assodate e la letteratura sul tema è lunga così. Si è cominciato a raccoglierle evidenziando l’effetto sulla crescita del cervello di traumi infantili, per poi riuscire a passare alla normalità studiando lo sviluppo di bambini sereni cresciuti in ambienti sereni, per quanto diversi tra loro per stimoli culturali. Per esempio, Martha Farah, dell’Università della Pennsylvania, lo ha fatto seguendo per vent’anni lo sviluppo del cervello di 64 persone, un tempo bambini di quattro anni e oggi quasi trentenni. I suoi risultati, aveva spiegato al Guardian , “supportano con decisione l’idea che i primissimi anni di vita del bambino ne influenzino i successivi”. Il suo studio è del 2012: oggi su Nature commenta la ricerca su reddito dei genitori e intelligenza dei figli facendo notare che “la necessità di investire nei bambini più poveri della nostra società è importante anche senza le neuroscienze”.
Ma, mentre il dibattito sui risvolti sociali della ricerca prosegue, abbiamo più o meno capito perché succede. E la spiegazione è nella crescita delle reti di neuroni. Il numero dei nostri neuroni, infatti, è massimo tra i terzo e il sesto mese di vita intrauterina. Mentre alla nascita sono circa 80-100 miliardi. Tra questi si stabiliscono migliaia di miliardi connessioni (le sinapsi), ma anche queste variano secondo il tempo. Cioè sono circa 2.500 per neurone all’inizio, 15mila verso i due-tre anni, e poi un numero progressivamente decrescente. Ma qui la decrescita avviene perché è il cervello che fa pulizia, eliminando le sinapsi che gli appaiono inutili. Questa tumultuosa crescita del numero di sinapsi e la loro, altrettanto tumultuosa, “potatura” sono indispensabili per la maturazione delle funzioni del cervello. E sono influenzati da quello che succede intorno a lui. Ecco perché attenzioni e stimoli rinforzano e modellano certe reti di neuroni, mentre un ambiente deprimente risulta in un cervello con meno connessioni e meno possibilità.
La maturazione del sistema nervoso continua anche oltre, ma entro i tre anni il più è fatto. È la ragione per cui gli psicologi e i pediatri sono sempre più attenti nell’incoraggiare i genitori e le altre figure con cui i bambini crescono a giocare coi piccoli, a comunicare con loro, a costruire relazioni fatte di azioni e reazioni esplicite, a mostrare i sentimenti e le emozioni, a raccontare storie e così via. Perché quando arriverà la campanella sarà l’ora di imparare a leggere e a scrivere e nessuna scuola speciale con programmi speciali e insegnanti speciali potrà più recuperare quello che il bambino avrà spontaneamente imparato dall’ambiente in cui è cresciuto.
Se volete figli intelligenti, insomma, dedicate loro più pomeriggi di giochi sul tappeto e all’aria aperta: il loro cervello vi ringrazierà.”
(Fonte: La Repubblica 10.6.15)